LA TRINCEA
©
2016 Marco Alfaroli.
La
pioggia cadeva con uno scroscio continuo, riducendo la visibilità in
quella notte oscura. Rigagnoli d’acqua scorrevano lungo le pareti
della trincea, la tettoia di fortuna gocciolava. Anch’io ero
bagnato fradicio e il camminamento era ridotto a un acquitrino.
Le
grate di ferro piazzate sul terreno per formare un sentiero erano
senz’altro utili ma non miglioravano il grigiore che avevo intorno.
Mi
ero guadagnato il grado di sergente sul campo, in quella sporca
guerra che durava ormai da più di duecento anni. Mio padre aveva
combattuto come me nella gloriosa fanteria, della potente Norkheria.
L’avevano congedato a causa delle ferite riportate in
combattimento. Mio nonno invece era morto difendendo le nostre linee
dall’ennesimo assalto delle forze di Estralhia.
Accesi
una sigaretta, coprendo il mozzicone col bavero della divisa. Un
cecchino poteva ammazzarti mirando a quella debole luce, e io non
volevo morire.
Erano
ore che non parlavo, i miei compagni li avevo accanto, ma pensavamo
tutti solo a scrutare oltre la protezione dei sacchi di sabbia... in
attesa.
Davanti
a noi tutto era buio; non c’era niente che si muovesse. Si vedevano
solo macerie bagnate dalla pioggia, terra bruciata e fumo. Il nemico
se ne stava nascosto come noi nelle trincee e anche se la situazione
sembrava tranquilla, non conveniva sporgersi troppo.
Qualcuno
si accorse che il canarino che tenevamo in una gabbietta era morto.
«Gas!»
gridò forte. «Attaccano con i gas!»
Gettai
la cicca e subito aprii il tappo laterale del contenitore a tubo che,
come gli altri soldati, avevo alla cintura.
Freneticamente
indossai la maschera pregando che i filtri fossero ancora attivi:
dall’ultimo attacco non li avevo cambiati. Erano finiti per tutti,
come il sapone e la morfina. Ma non si dimenticavano mai di
rifornirci di pallottole: il magazzino era pieno di caricatori Mauser
e granate.
Un
boato mi scosse.
I
cannoni Quasar iniziavano il martellamento delle nostre linee come
copertura per il loro assalto.
Caricai
il mio K-303 e montai la baionetta. Hanz, alla mia destra, aprì
l’erogatore di carburante e accese il fuoco pilota del
lanciafiamme. D’istinto mi spostai e lui se ne accorse; se lo
colpivano, non aspiravo a finire coinvolto nella deflagrazione.
Ci
fu un’altra esplosione. Fece tremare tutto e mi buttò addosso
terra e detriti: questa volta avevano colpito maledettamente vicino.
Il
capitano agitò in cerchio la pistola: non era facile dare ordini con
la maschera sulla faccia e quel gesto era il nostro segnale convenuto
che significava: Fuoco!
Alzai
la testa e iniziai a sparare.
L’elmo
calato sugli occhi, il vetro graffiato della maschera, la terra che
saltava dopo ogni boato, l’oscurità della notte, tutto contribuiva
a farmi distinguere con difficoltà i nemici in arrivo; ma io
continuai a far fuoco nella loro direzione.
Spuntarono
in mezzo al fumo, bersagliati dai nostri colpi: avanzavano e cadevano
come mosche. I bossoli saltavano via dal mio Mauser K 303 che
sussultava e si arroventava.
Un’altra
tremenda esplosione fece saltare in aria alcuni degli assalitori,
insieme a sassi e polvere; quando ricaddero a terra erano a pezzi,
vittime del fuoco amico.
Provai
quasi pena per loro: spesso succedeva anche a noi.
Approfittai
del polverone per cambiare il caricatore: ero quasi a secco. Accanto
a me, gli altri continuavano a sparare. Bisognava abbattere quanti
più nemici possibile, prima che arrivassero alla trincea.
Ma
non riuscimmo a fermarli.
Il
primo che saltò dentro la trincea usava il fucile con la baionetta
innestata come se fosse una lancia. Infilzò Fritz in pieno petto
spingendolo a terra. Non ebbi il tempo di fermarlo, ma iniziai subito
a sparare.
Da
quella distanza ravvicinata crivellai di colpi quel soldato, che andò
a sbattere contro la parete della trincea per poi cadere esanime nel
fango.
Mi
guardai intorno. Gli assalitori stavano travolgendo la nostra linea.
Arrivavano da tutte le parti, fendendo l’aria con le baionette. I
mitra ormai sparavano in modo disordinato e molti di noi cadevano a
terra morti.
Sentii
un gran caldo. Accanto a me, Hanz si dava da fare con il
lanciafiamme. La vampata di fuoco avvolse un soldato tra i tanti che
penetravano nella trincea.
Rovinò
a terra con il corpo in fiamme come una torcia e io mi spostai per
non andare arrosto.
Fu
una distrazione di troppo. Alzai la testa e già ne avevo un altro
che mi saltava addosso, parai il colpo col fucile che mi si spezzò
in mano sotto il peso della sua furia.
Cademmo
lottando in mezzo al fango. D’istinto riuscii ad afferrare la
maschera e gliela strappai; vidi la faccia di un disgraziato come me,
che iniziava a soffocare intossicato dal gas.
Non
badai più a lui, era spacciato. Presi invece il suo mitragliatore:
avevo bisogno di un’arma e la mia era a pezzi.
Feci
appena in tempo ad alzarmi in ginocchio, quando, alcuni metri più
avanti, qualcuno colpì le bombole di Hanz e ci fu una tremenda
deflagrazione.
Calore
e fiamme m’investirono e stramazzai al suolo stordito; tutto,
intorno a me, ruotava e vedevo doppio.
Non
so per quanto tempo rimasi svenuto. Chissà quanti lottarono sopra di
me, magari calpestandomi in quella tremenda mischia. E chissà quale
santo decise di proteggermi, facendomi sopravvivere allo scontro.
Chissà.
Quando
rinvenni, la battaglia era finita. Un commilitone mi scosse
afferrandomi per le spalle. Non riuscivo a capire chi fosse: con la
maschera sembravamo tutti uguali.
Mentre
mi riprendevo lentamente, mi accorsi che avevo la divisa
bruciacchiata ed ero pieno di fango; a parte questo mi sembrava di
essere ancora tutto intero. Mi era andata bene, questa volta. Mi
alzai facendogli cenno che era tutto a posto e lui si disinteressò
di me. Passò a soccorrere gli altri.
Appena
fui in piedi, barcollai, sentii la testa che girava e le tempie che
mi martellavano. Mi guardai intorno: il nemico si era ritirato e il
campo di battaglia era più tetro e devastato di prima.
Di
Hanz restava poco, poco più di uno scheletro che bruciava con ancora
addosso le bombole aperte come una scatola di fagioli. Vicino a lui,
altri tre corpi semicarbonizzati... e non si capiva se fossero amici
o nemici.
I
feriti si lamentavano e i morti erano centinaia, di entrambi gli
eserciti.
Cominciavo
a non poterne più di quella carneficina quotidiana. Tolsi la
maschera, ormai ero uno dei pochi che ancora la indossava, segno che
il gas si era disperso. Proprio in quel momento il capitano mi venne
incontro.
«Stai
bene?»
«Credo
di sì, capitano».
«Finché
non trovo dei rimpiazzi, devi mantenere la posizione. Hai dieci
uomini per proteggere questo fronte. Cerca di fare un buon lavoro».
«Agli
ordini, capitano».
Lui
si voltò e si avviò verso il prossimo settore delle trincee,
probabilmente per assegnare quella parte ad altri che ancora erano in
grado di reggersi in piedi. Osservai in silenzio i barellieri che
portavano via i feriti urlanti.
Uno
degli uomini che avevo intorno mi affrontò.
«Sergente,
noi restiamo qui?»
«Sì,
piazzatevi tre metri l’uno dall’altro e aguzzate la vista,
potrebbero riprovarci».
«Non
sono loro i nostri nemici, sergente» gridò. «Il vero nemico è chi
ci tiene qui, a scannarci per una guerra inutile».
«Stai
attento» gli dissi «parli come uno di quelli del Pugno Nero. Se
riferisco le tue parole, andrai dritto davanti alla corte marziale».
Lui
mi guardò con un ghigno di sfida, in fondo mi conosceva bene.
«So
che non lo farai e che la pensi come me! Siamo in molti a pensarla
così e non facciamo parte del Pugno Nero».
Continuò
a punzecchiarmi. Sapevo che aveva ragione.
«Dicono
che il Pugno Nero è trasversale, che ne fanno parte traditori di
Norkheria e di Estralhia. Ma chi è il vero traditore? I Conti e i
Baroni che hanno iniziato la guerra non li ha più visti nessuno. Ora
si fanno chiamare Inaccessibili
e se ne stanno al sicuro nei loro palazzi mentre le nostre mogli
lavorano come schiave nelle fabbriche di armi. Gli Inaccessibili!
Ecco chi sono i veri traditori!»
Si
zittì improvvisamente perché il tenente passava proprio in quel
momento. Scrutò tutti con un’occhiata severa ma non intervenne.
Sapevo che aveva sentito e lo guardai mentre si allontanava. Era un
tipo taciturno e chiuso. Direi quasi enigmatico e a volte mi
spaventava.
Non
ricordavamo il motivo scatenante di quella guerra. Eravamo tutti nati
a conflitto iniziato e c’eravamo abituati a quella vita, ammesso
che si potesse definire tale.
Devo
ammettere che il Pugno Nero affascinava anche me. Li chiamavano
terroristi, traditori, disertori. Quando riuscivano a prenderli,
venivano immediatamente fucilati. Ma cosa volevano? Dicevano di
guardarci dai nostri ufficiali superiori e dagli Inaccessibili.
In
fondo non ce l’avevano con noi, ma solo con quei colonnelli e quei
generali pieni di sé che davano ordini rimanendo sempre indietro, al
sicuro.
Ecco,
ne stava arrivando uno. Il generale Kraditz veniva a verificare la
situazione sul campo. Era circondato dalla sua guardia personale,
soldati in nero che mi sembrava avessero tutti la stessa faccia senza
espressione.
Non
che il generale ne avesse una migliore, o esprimesse un sentimento.
Era distaccato e altezzoso, mi faceva rabbia.
Scambiò
due parole col capitano, il tenente stava vicino in silenzio. A noi
soldati il generale non disse niente, nemmeno un bravi
ragazzi, sono orgoglioso: vi siete battuti come leoni.
Se ne andò nella baracca di comando, probabilmente a sfogliare mappe
e a spostare bandierine.
Passarono
almeno due ore. Il fronte sembrava tranquillo e gli uomini
cominciavano a sonnecchiare. Avevo messo due sentinelle a vigilare in
modo che gli altri potessero riposarsi.
La
raffica che sentimmo ci scosse tutti dal torpore, un’altra seguì
la prima quasi subito accompagnata da colpi di pistola. Ci stavano
attaccando! Vidi le sentinelle stupefatte che alzavano le spalle.
Guardai oltre i sacchi di sabbia e capii che non c’era nessun
attacco.
«I
colpi vengono da dietro le nostre linee» disse una sentinella.
«Hai
ragione» risposi. «Sembra che provengano dalla baracca comando».
Non
potevo lasciare sguarnita la postazione, ma sapevo che, in una
situazione del genere, da ogni parte della lunga trincea sarebbe
accorso qualcuno; mandato dal caporale o dal sergente che controllava
la zona. «Jorg, Arvid, con me! Gli altri mantengano la posizione!
Andiamo a vedere cos’è successo».
Man
mano che ci avvicinavamo alla baracca, altri uomini si univano a noi
e alla fine fummo in quindici. Abbastanza per fronteggiare lo
sconosciuto nemico.
Tre
uomini della guardia personale del generale erano stesi fuori della
baracca, ma non era questo che mi aveva sconvolto.
Il
fatto era che non si poteva dire che fossero morti. Un morto lo
sapevo riconoscere al volo: sangue, ferite, espressione di dolore.
Questi invece avevano la solita faccia di sempre, non c’era sangue
in terra o sulle divise, nonostante gli evidenti fori di proiettile.
Uno
addirittura aveva un braccio staccato dal corpo. Come diavolo era
successo? Raccolsi quel braccio e mi sembrò l’arto di un
manichino: Dalla parte staccata fuoriusciva qualcosa simile alla
canapa.
Sembravano
tre pupazzi rotti.
Aprii
la porta della baracca impugnando il Mauser. Incontrai lo sguardo
attento del capitano: stava tranquillamente seduto con la pistola in
mano.
Per
terra davanti a lui c’era il generale, privo di testa. Non era
decapitato, era solo smontato: vidi la testa due metri più in là
con quegli strani filamenti di canapa che gli uscivano dal collo. La
sua faccia era altezzosa, come sempre.
Il
tenente era in piedi; imbracciava il mitragliatore fumante. Stese ai
suoi piedi, le altre tre guardie nere.
«Penserai
che li abbiamo uccisi, figliolo» disse con calma il capitano.
«Sarebbe un crimine imperdonabile uccidere il proprio comandante e
dare così un grosso vantaggio al nemico».
Io
non dissi nulla. Anche gli altri dietro di me rimasero in silenzio.
Il capitano continuò, tranquillo.
«Quello
che dobbiamo capire è chi abbiamo ucciso e poi, se questi siano mai
stati vivi».
«Sembrano
dei pupazzi» dissi.
«Sono
dei pupazzi!» replicò. «Marionette, burattini, tutto, fuori che
uomini. Noi del Pugno Nero ci siamo coordinati per un’azione che
cambierà il destino dell’umanità. Oltre le linee avversarie
qualcuno dei nostri, tra le file di Estralhia, ha fatto lo stesso con
il loro ufficiale superiore. L’operazione è partita e si espanderà
a macchia d’olio per neutralizzare tutte le marionette che ci hanno
comandato finora. Queste creature comandano migliaia di uomini ignari
e obbedienti per cui non sappiamo se avremo successo. Ma era
importante tentare.
C’è
un altro fattore importante da valutare: dietro a ogni marionetta c’è
sempre un regista.
Non
sappiamo chi siano in realtà gli Inaccessibili, nessuno li ha mai
visti. Ma se non possono comandarci di persona e hanno bisogno di
pupazzi che rispondono direttamente ai loro ordini, ciò significa
che sono pochi, oppure che sono deboli. Finché non arriveremo a
loro, non sarà finita. Ma giuro che ci arriveremo».
Scambiai
un’occhiata con i miei compagni: la pensavamo tutti allo stesso
modo.
«Capitano,
noi siamo pronti!»
***
L’Inaccessibile
di Norkheria guardava fisso fuori della vetrata del palazzo. Era
vestito con una lunga tunica rosso scura. Bordature in oro e argento
la rifinivano, Un grosso casco di piombo gli copriva completamente il
capo.
Se
ne stette impassibile, voltato verso la finestra, anche quando entrò
nella stanza uno dei suoi generali pupazzo a riferire le ultime
novità. Il pupazzo si avvicinò e si fermò sull’attenti.
«Potente
Inaccessibile, abbiamo perso il controllo d’importanti parti
dell’esercito, la ribellione dilaga e presto gli uomini
diventeranno pericolosi».
Senza
aspettarsi una risposta, poiché il suo unico compito era riferire la
situazione, il generale fece dietrofront e uscì dalla stanza.
L’Inaccessibile
azionò una leva e gli enormi tendaggi coprirono la finestra
oscurando quasi del tutto la stanza.
Nell’oscurità,
al sicuro dalle radiazioni solari, poteva togliersi il pesante casco
di piombo. Nella penombra, illuminata dalla luce che riusciva a
entrare attraverso uno spiraglio tra le tende accostate, fu
finalmente ben visibile la sua enorme testa d’insetto, con i grandi
occhi sfaccettati e le mandibole che si strofinavano nervosamente
l’un l’altra.
Emise
uno stridio, evidentemente preoccupato. C’erano solo altri otto
suoi simili a dominare il mondo. I terrestri cominciavano ad aprire
gli occhi e il gioco che lui e gli altri avevano portato avanti per
duecento anni non poteva continuare.
Il
loro potere era proliferato grazie all’ignoranza! Era bastato
sostituirsi agli stolti governanti della Terra per ereditare una
gigantesca massa umana da usare a piacimento.
Presto,
però, le cose sarebbero cambiate. Lui e gli altri avevano una sola
possibilità, salire sulle astronavi e fuggire. Da qualche parte nel
cosmo, c’era sicuramente un altro pianeta da sottomettere,
bisognava solo cercarlo.
Decise
di partire, al più presto.
Questo e altri racconti sono inclusi nell'antologia SCHEGGE DALLO SPAZIO