venerdì 1 marzo 2024

Squadra avanzata di Space Marine


 

Ho comprato, in una cartoleria che svendeva vecchi prodotti per cessata attività, un set principianti Warhammer 40000. Ho dipinto gli Space Marine come mi pare, senza seguire i colori originali del gioco: i miei sono cattivissimi e fanno parte di un Impero Terrestre Nazistoide (notare la croce a tre punte sulle armature). Con i pezzi avanzati da altri modelli ho inventato lo Speeder e il pilota (avevo solo la testa e le braccia).


 

 

Sopra il Dreadnought in dettaglio



Sopra lo Speeder in dettaglio.

giovedì 1 febbraio 2024

Un racconto di fantascienza

 


ATUMIANI

© 2016 Marco Alfaroli

 

Atum era il Signore delle divinità,

si era autocreato e aveva come sposa la sua ombra.


Quel giorno Ra era proprio di buon umore. Sorrise e puntò i suoi occhi di rapace sulle piramidi che aveva impastato personalmente quella notte.

Quando si divertiva a modellare usava sempre materia grezza e poi, attraverso impulsi mentali, rendeva le pareti lisce e compatte. Il risultato era una serie di forme perfette, diverse per colore e grandezza, tutte sospese a mezz’aria. Le sue creazioni rimanevano immobili, in attesa della conclusione del gioco.

Fissò la più grande e questa, quasi subito, iniziò a traslare di lato e si fermò su quella più piccola, di colore rosso.

Con un’altra azione mentale, fece ruotare la piramide fino capovolgerla completamente. Poi ghermì le altre tre, verdi e luminose. Anche queste ruotarono, ma rimasero perpendicolari e i loro vertici finirono per fronteggiarsi.


Toth si avvicinò proprio in quel momento.

«Bella scultura aerea!» esclamò.

«Non so» disse Ra «mi sembra che manchi qualcosa».

I suoi occhi si accesero e tra i vertici delle piramidi, con un lampo, esplose un piccolo sole.

«Ecco, ora va molto meglio».

Toth osservava pensieroso quella meravigliosa manifestazione della loro grandezza. Improvvisamente parlò.

«Quel sole giallo, ti ricordi? È successo tanto tempo fa...»

«Sì, mi ricordo».

Gli altri Atumiani si destarono dall’apatia e prestarono attenzione all’evento, perché evocava le loro gesta del passato.

Anubi intervenne nella discussione.

«Li ho percepiti. Stanno arrivando!» disse. «I loro pensieri sono semplici, come allora. Eppure li sento sempre più vicini».

«Credi che siano venuti a cercarci?» chiese Ra, perplesso.

«No, è un caso. Avverto in loro molta sete di conoscenza. Sono state la curiosità e la speranza ad averli spinti fin qui».

Ra si elevò di quota. Le enormi pinne vela che lo mantenevano in volo lentamente si trasformarono. Come tutti i suoi simili, riusciva a modificare il proprio aspetto e assumere forme diverse.

Toth lo osservò mentre imitava gli umanoidi del terzo pianeta di quel sole lontano. Lui era sempre stato contrario a questa pratica: assomigliare a esseri così semplici significava sminuirsi. Era vero però, che quegli organismi primitivi avevano subito stimolato la fantasia degli Atumiani e anche lui, tutte le volte che si era presentato a loro, lo aveva fatto imitandone l’aspetto.

Gli Atumiani riuscivano a fare qualsiasi cosa, perché avevano il controllore della materia e del tempo; erano immortali e potevano spostarsi ovunque nello spazio a velocità inimmaginabili.

Si erano spostati spesso nel cosmo: lo facevano per gioco. Una volta, per esempio, erano partiti in molti per raggiungere quel mondo così diverso dal loro.

Era stato divertente. Ripensò per un attimo a come aveva influito sugli abitanti di quel mondo... a come aveva plasmato la civiltà Egizia. Si rivolse a Ra, che ormai esibiva, esclusa la testa, un aspetto completamente umano.

«Io insegnai agli uomini il linguaggio dei simboli. Dimostrarono molta intelligenza e sfruttarono bene quello che appresero. Fu qualcosa di notevole, se si pensa a quanto fosse stata ingiusta la natura con loro».

Ra tornò lentamente alla sua forma naturale, le gambe umane si unirono tornando a essere la lunga coda verticale e le pinne vela crebbero veloci di lato.

«Erano solo materia per i nostri giochi. Ricordate come li abbiamo abbandonati? Fu la noia a convincerci a partire».


La fitta coltre di nubi fu rotta da un oggetto volante, piccolo e durissimo.

A bordo, da dietro i molti finestrini, gli abitanti del terzo pianeta della lontana stella gialla, guardavano sbalorditi il mondo degli Atumiani.

Il suolo non era visibile, coperto da incredibili vapori colorati. Enormi masse di gas nascondevano chissà quali segreti e rendevano tutto indistinto.

Dalla nebbia emergevano altissimi e maestosi rami color ebano, addobbati da un’infinità di sfere bianche di varie grandezze. In mezzo a questa bizzarra vegetazione, i giganteschi Atumiani galleggiavano nell’aria, immobili, incuriositi dai visitatori.

«Sono loro?» chiese Iside, che fino a quel momento non aveva ancora parlato.

«Sì» le rispose Anubi «vi avevo detto che sarebbero arrivati».


L’astronave era molto piccola. Se si rapportava alle dimensioni di Ra, di Toth e di tutti gli altri, appariva minuscola. I visitatori sembravano formiche al cospetto di giganti.

Eppure non si persero d’animo e attivarono tutti i mezzi in loro possesso per cercare di farsi capire.

Dalla nave partirono tanti segnali. Fasci di luce diretta e lampeggiante, bagliori prolungati e a volte intermittenti, comunicazioni radio su tutte le frequenze possibili, messaggi a contenuto matematico con sequenze logiche e intuitive.

Gli umani provarono ogni strada per arrivare a stabilire un contatto con quelle creature extraterrestri che ricordavano molto le antiche divinità Egizie, almeno nella parte superiore del corpo.


«Credi che abbiano fatto dei progressi, Anubi?» chiese Ra, curioso.

«Sono arrivati fin qui. Hanno fatto molto, ma non si sono evoluti in tutto questo tempo: sono gli stessi deboli umani che ci adoravano sul loro mondo».

Il parere di Anubi fu sufficiente perché Ra prendesse la sua decisione: con un ampio gesto creò una nuova piramide.

Era una struttura trasparente e vuota, che avvolse l’astronave dei terrestri chiudendosi ermeticamente. Il risultato fu una prigione di cristallo a forma di piramide.

Il velivolo atterrò sulla superficie levigata. Sbuffi di fumo ne annunciarono la stabilizzazione. Un grosso portello laterale si aprì e gli esseri umani sbarcarono.

Dapprima rimasero protetti nei loro scafandri astrali, poi, dopo un’attenta analisi dell’atmosfera che li circondava mediante le loro macchine, decisero di togliersi il casco.

Aria respirabile! Avevano intorno aria fresca e respirabile!

Avevano anche intorno, però, spesse pareti di un materiale trasparente durissimo e impenetrabile.

Il loro stato d’animo cambiò; si agitarono, gesticolarono isterici. Anubi avvertì nei loro pensieri paura, disperazione e rabbia.


Ra, invece, non si preoccupò di che cosa pensassero gli umani, puntò lo sguardo e con un’azione mentale spostò la prigione vetrosa proprio sopra la piramide capovolta della sua creazione, formando una struttura in armonia col resto dell’opera, le forme erano vicine ma non si toccavano, l’insieme rimaneva sospeso e riscaldato dalla luce della piccola stella.

«Perché hai fatto questo?» chiese Toth a Ra.

«Solo così questi esseri possono essermi utili».

Anubi e Iside sembravano affascinati dalla conclusione geniale dell’opera. Anche gli altri Atumiani presenti, si avvicinarono per vedere meglio.

Dentro la piramide di cristallo, intanto, gli uomini parlavano freneticamente tra loro. Quello che sembrava il capo tornò a bordo, mentre gli altri, demoralizzati, restarono fuori senza più sapere cosa fare.


Lo sforzo creativo aveva stancato Ra che, infatti, decise di tuffarsi nei vapori sottostanti. Gli altri lo videro sparire.

Lo faceva sempre, quando sentiva di doversi riposare dopo aver esagerato con i suoi poteri mentali.

Gli altri Atumiani scivolarono nuovamente in una dolce apatia, aspettando la prossima scossa di divertimento.

Toth si avvicinò guardingo alle piramidi. Appena fu davanti al muro vetroso che imprigionava i visitatori, li guardò con una specie di ghigno divertito.

Assestò un colpo potente: gli uomini fuori dell’astronave barcollarono e poi caddero a terra. Tutto tremò.

Con una sola mazzata, se avesse voluto, avrebbe potuto mandare in frantumi la piramide. Ma non era questo il suo piano.

I terrestri spaventati si rifugiarono nell’astronave e il comandante ordinò il decollo. Getti di energia e fumo sostennero il velivolo, immobile in aria, circondato dalla struttura trasparente visibilmente incrinata.

Ecco, avevano fatto ciò che voleva. Toth sferrò un secondo, potente colpo di pinna, che sbriciolò gran parte della creazione di Ra, compresa la piramide degli umani.

Gli Atumiani si rallegrarono del colpo di scena. Era un bel modo per scuoterli dalla noia. Intanto la piccola astronave schizzò via, zigzagando tra quei corpi colossali. Poi guadagnò il cielo, aumentando la potenza dei motori per fuggire via, a casa.

Toth si compiacque per quello che aveva fatto.

«Chissà come si arrabbierà Ra domani quando scoprirà che ho distrutto la sua creazione» disse, fiero. Tutti scoppiarono in una fragorosa risata.

Poi, stanco per l’intensa attività, si tuffò nelle nuvole di vapore, anche lui per riposarsi.

 

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lunedì 1 gennaio 2024

Rebel Moon - Parte1: figlia del fuoco

 

Rebel Moon è il remake di un B-movie degli anni ‘80, I magnifici sette nello spazio, che a sua volta era il remake Sci-Fi di un classico western degli anni ‘60, I magnifici sette che a sua volta era il remake dell’originale giapponese del ‘54, I sette samurai.

 


Bé, dopo questa matrioska di pellicole conviene fare una precisazione: Rebel Moon non è solo il remake di quei film, è soprattutto lo Space Opera che più si avvicina a Star Wars tra tutti quelli tentati dal 1977 in poi. Le spietate truppe del Pianeta Madre ricordano molto gli Imperiali di Darth Vader e soprattutto i nazisti della WW2. Le astronavi, invece, nell’estetica esterna e interna, nel modo di navigare e nelle bordate dei cannoni, si ispirano piacevolmente agli antichi galeoni dei pirati e dei corsari.

C’è un altro film che sicuramente ha ispirato la pellicola: Soldier, del 1998, con Kurt Russell, che era il remake Sci-Fi del western Il cavaliere della valle solitaria, del 1953. Infatti il sergente Todd, un soldato superaddestrato, affrontava i suoi ex commilitoni difendendo i contadini proprio come fa Kora combattendo contro i soldati del Pianeta Madre.

Il film riscatta finalmente la figura imbarazzante lasciata dal precedente tentativo di portare la storia originale tra le stelle. Infatti, se I magnifici sette nello spazio fu girato a basso budget, con una trama approssimativa e attori anche importanti coinvolti per ruoli a due dimensioni… Rebel Moon ha una trama solida, effetti speciali mirabolanti e una cura dei dettagli maniacale. Zack Snyder ha realizzato un capolavoro assoluto e, dopo aver visto Parte 1: figlia del fuoco, aspetto con ansia Parte 2: la Sfregiatrice… a aprile 2024!

Chissà se sarà il remake di un altro film...

 

 

venerdì 1 dicembre 2023

Un racconto di fantascienza

 


 

 

LA TRINCEA 

© 2016 Marco Alfaroli.

 

La pioggia cadeva con uno scroscio continuo, riducendo la visibilità in quella notte oscura. Rigagnoli d’acqua scorrevano lungo le pareti della trincea, la tettoia di fortuna gocciolava. Anch’io ero bagnato fradicio e il camminamento era ridotto a un acquitrino.

Le grate di ferro piazzate sul terreno per formare un sentiero erano senz’altro utili ma non miglioravano il grigiore che avevo intorno.

Mi ero guadagnato il grado di sergente sul campo, in quella sporca guerra che durava ormai da più di duecento anni. Mio padre aveva combattuto come me nella gloriosa fanteria, della potente Norkheria. L’avevano congedato a causa delle ferite riportate in combattimento. Mio nonno invece era morto difendendo le nostre linee dall’ennesimo assalto delle forze di Estralhia.

Accesi una sigaretta, coprendo il mozzicone col bavero della divisa. Un cecchino poteva ammazzarti mirando a quella debole luce, e io non volevo morire.

Erano ore che non parlavo, i miei compagni li avevo accanto, ma pensavamo tutti solo a scrutare oltre la protezione dei sacchi di sabbia... in attesa.

Davanti a noi tutto era buio; non c’era niente che si muovesse. Si vedevano solo macerie bagnate dalla pioggia, terra bruciata e fumo. Il nemico se ne stava nascosto come noi nelle trincee e anche se la situazione sembrava tranquilla, non conveniva sporgersi troppo.


Qualcuno si accorse che il canarino che tenevamo in una gabbietta era morto.

«Gas!» gridò forte. «Attaccano con i gas!»

Gettai la cicca e subito aprii il tappo laterale del contenitore a tubo che, come gli altri soldati, avevo alla cintura.

Freneticamente indossai la maschera pregando che i filtri fossero ancora attivi: dall’ultimo attacco non li avevo cambiati. Erano finiti per tutti, come il sapone e la morfina. Ma non si dimenticavano mai di rifornirci di pallottole: il magazzino era pieno di caricatori Mauser e granate.

Un boato mi scosse.

I cannoni Quasar iniziavano il martellamento delle nostre linee come copertura per il loro assalto.

Caricai il mio K-303 e montai la baionetta. Hanz, alla mia destra, aprì l’erogatore di carburante e accese il fuoco pilota del lanciafiamme. D’istinto mi spostai e lui se ne accorse; se lo colpivano, non aspiravo a finire coinvolto nella deflagrazione.

Ci fu un’altra esplosione. Fece tremare tutto e mi buttò addosso terra e detriti: questa volta avevano colpito maledettamente vicino.

Il capitano agitò in cerchio la pistola: non era facile dare ordini con la maschera sulla faccia e quel gesto era il nostro segnale convenuto che significava: Fuoco!

Alzai la testa e iniziai a sparare.

L’elmo calato sugli occhi, il vetro graffiato della maschera, la terra che saltava dopo ogni boato, l’oscurità della notte, tutto contribuiva a farmi distinguere con difficoltà i nemici in arrivo; ma io continuai a far fuoco nella loro direzione.

Spuntarono in mezzo al fumo, bersagliati dai nostri colpi: avanzavano e cadevano come mosche. I bossoli saltavano via dal mio Mauser K 303 che sussultava e si arroventava.

Un’altra tremenda esplosione fece saltare in aria alcuni degli assalitori, insieme a sassi e polvere; quando ricaddero a terra erano a pezzi, vittime del fuoco amico.

Provai quasi pena per loro: spesso succedeva anche a noi.

Approfittai del polverone per cambiare il caricatore: ero quasi a secco. Accanto a me, gli altri continuavano a sparare. Bisognava abbattere quanti più nemici possibile, prima che arrivassero alla trincea.

Ma non riuscimmo a fermarli.

Il primo che saltò dentro la trincea usava il fucile con la baionetta innestata come se fosse una lancia. Infilzò Fritz in pieno petto spingendolo a terra. Non ebbi il tempo di fermarlo, ma iniziai subito a sparare.

Da quella distanza ravvicinata crivellai di colpi quel soldato, che andò a sbattere contro la parete della trincea per poi cadere esanime nel fango.

Mi guardai intorno. Gli assalitori stavano travolgendo la nostra linea. Arrivavano da tutte le parti, fendendo l’aria con le baionette. I mitra ormai sparavano in modo disordinato e molti di noi cadevano a terra morti.

Sentii un gran caldo. Accanto a me, Hanz si dava da fare con il lanciafiamme. La vampata di fuoco avvolse un soldato tra i tanti che penetravano nella trincea.

Rovinò a terra con il corpo in fiamme come una torcia e io mi spostai per non andare arrosto.

Fu una distrazione di troppo. Alzai la testa e già ne avevo un altro che mi saltava addosso, parai il colpo col fucile che mi si spezzò in mano sotto il peso della sua furia.

Cademmo lottando in mezzo al fango. D’istinto riuscii ad afferrare la maschera e gliela strappai; vidi la faccia di un disgraziato come me, che iniziava a soffocare intossicato dal gas.

Non badai più a lui, era spacciato. Presi invece il suo mitragliatore: avevo bisogno di un’arma e la mia era a pezzi.

Feci appena in tempo ad alzarmi in ginocchio, quando, alcuni metri più avanti, qualcuno colpì le bombole di Hanz e ci fu una tremenda deflagrazione.

Calore e fiamme m’investirono e stramazzai al suolo stordito; tutto, intorno a me, ruotava e vedevo doppio.


Non so per quanto tempo rimasi svenuto. Chissà quanti lottarono sopra di me, magari calpestandomi in quella tremenda mischia. E chissà quale santo decise di proteggermi, facendomi sopravvivere allo scontro.

Chissà.

Quando rinvenni, la battaglia era finita. Un commilitone mi scosse afferrandomi per le spalle. Non riuscivo a capire chi fosse: con la maschera sembravamo tutti uguali.

Mentre mi riprendevo lentamente, mi accorsi che avevo la divisa bruciacchiata ed ero pieno di fango; a parte questo mi sembrava di essere ancora tutto intero. Mi era andata bene, questa volta. Mi alzai facendogli cenno che era tutto a posto e lui si disinteressò di me. Passò a soccorrere gli altri.

Appena fui in piedi, barcollai, sentii la testa che girava e le tempie che mi martellavano. Mi guardai intorno: il nemico si era ritirato e il campo di battaglia era più tetro e devastato di prima.

Di Hanz restava poco, poco più di uno scheletro che bruciava con ancora addosso le bombole aperte come una scatola di fagioli. Vicino a lui, altri tre corpi semicarbonizzati... e non si capiva se fossero amici o nemici.

I feriti si lamentavano e i morti erano centinaia, di entrambi gli eserciti.

Cominciavo a non poterne più di quella carneficina quotidiana. Tolsi la maschera, ormai ero uno dei pochi che ancora la indossava, segno che il gas si era disperso. Proprio in quel momento il capitano mi venne incontro.

«Stai bene?»

«Credo di sì, capitano».

«Finché non trovo dei rimpiazzi, devi mantenere la posizione. Hai dieci uomini per proteggere questo fronte. Cerca di fare un buon lavoro».

«Agli ordini, capitano».

Lui si voltò e si avviò verso il prossimo settore delle trincee, probabilmente per assegnare quella parte ad altri che ancora erano in grado di reggersi in piedi. Osservai in silenzio i barellieri che portavano via i feriti urlanti.

Uno degli uomini che avevo intorno mi affrontò.

«Sergente, noi restiamo qui?»

«Sì, piazzatevi tre metri l’uno dall’altro e aguzzate la vista, potrebbero riprovarci».

«Non sono loro i nostri nemici, sergente» gridò. «Il vero nemico è chi ci tiene qui, a scannarci per una guerra inutile».

«Stai attento» gli dissi «parli come uno di quelli del Pugno Nero. Se riferisco le tue parole, andrai dritto davanti alla corte marziale».

Lui mi guardò con un ghigno di sfida, in fondo mi conosceva bene.

«So che non lo farai e che la pensi come me! Siamo in molti a pensarla così e non facciamo parte del Pugno Nero».

Continuò a punzecchiarmi. Sapevo che aveva ragione.

«Dicono che il Pugno Nero è trasversale, che ne fanno parte traditori di Norkheria e di Estralhia. Ma chi è il vero traditore? I Conti e i Baroni che hanno iniziato la guerra non li ha più visti nessuno. Ora si fanno chiamare Inaccessibili e se ne stanno al sicuro nei loro palazzi mentre le nostre mogli lavorano come schiave nelle fabbriche di armi. Gli Inaccessibili! Ecco chi sono i veri traditori!»

Si zittì improvvisamente perché il tenente passava proprio in quel momento. Scrutò tutti con un’occhiata severa ma non intervenne. Sapevo che aveva sentito e lo guardai mentre si allontanava. Era un tipo taciturno e chiuso. Direi quasi enigmatico e a volte mi spaventava.


Non ricordavamo il motivo scatenante di quella guerra. Eravamo tutti nati a conflitto iniziato e c’eravamo abituati a quella vita, ammesso che si potesse definire tale.

Devo ammettere che il Pugno Nero affascinava anche me. Li chiamavano terroristi, traditori, disertori. Quando riuscivano a prenderli, venivano immediatamente fucilati. Ma cosa volevano? Dicevano di guardarci dai nostri ufficiali superiori e dagli Inaccessibili.

In fondo non ce l’avevano con noi, ma solo con quei colonnelli e quei generali pieni di sé che davano ordini rimanendo sempre indietro, al sicuro.

Ecco, ne stava arrivando uno. Il generale Kraditz veniva a verificare la situazione sul campo. Era circondato dalla sua guardia personale, soldati in nero che mi sembrava avessero tutti la stessa faccia senza espressione.

Non che il generale ne avesse una migliore, o esprimesse un sentimento. Era distaccato e altezzoso, mi faceva rabbia.

Scambiò due parole col capitano, il tenente stava vicino in silenzio. A noi soldati il generale non disse niente, nemmeno un bravi ragazzi, sono orgoglioso: vi siete battuti come leoni. Se ne andò nella baracca di comando, probabilmente a sfogliare mappe e a spostare bandierine.


Passarono almeno due ore. Il fronte sembrava tranquillo e gli uomini cominciavano a sonnecchiare. Avevo messo due sentinelle a vigilare in modo che gli altri potessero riposarsi.

La raffica che sentimmo ci scosse tutti dal torpore, un’altra seguì la prima quasi subito accompagnata da colpi di pistola. Ci stavano attaccando! Vidi le sentinelle stupefatte che alzavano le spalle. Guardai oltre i sacchi di sabbia e capii che non c’era nessun attacco.

«I colpi vengono da dietro le nostre linee» disse una sentinella.

«Hai ragione» risposi. «Sembra che provengano dalla baracca comando».

Non potevo lasciare sguarnita la postazione, ma sapevo che, in una situazione del genere, da ogni parte della lunga trincea sarebbe accorso qualcuno; mandato dal caporale o dal sergente che controllava la zona. «Jorg, Arvid, con me! Gli altri mantengano la posizione! Andiamo a vedere cos’è successo».

Man mano che ci avvicinavamo alla baracca, altri uomini si univano a noi e alla fine fummo in quindici. Abbastanza per fronteggiare lo sconosciuto nemico.


Tre uomini della guardia personale del generale erano stesi fuori della baracca, ma non era questo che mi aveva sconvolto.

Il fatto era che non si poteva dire che fossero morti. Un morto lo sapevo riconoscere al volo: sangue, ferite, espressione di dolore. Questi invece avevano la solita faccia di sempre, non c’era sangue in terra o sulle divise, nonostante gli evidenti fori di proiettile.

Uno addirittura aveva un braccio staccato dal corpo. Come diavolo era successo? Raccolsi quel braccio e mi sembrò l’arto di un manichino: Dalla parte staccata fuoriusciva qualcosa simile alla canapa.

Sembravano tre pupazzi rotti.

Aprii la porta della baracca impugnando il Mauser. Incontrai lo sguardo attento del capitano: stava tranquillamente seduto con la pistola in mano.

Per terra davanti a lui c’era il generale, privo di testa. Non era decapitato, era solo smontato: vidi la testa due metri più in là con quegli strani filamenti di canapa che gli uscivano dal collo. La sua faccia era altezzosa, come sempre.

Il tenente era in piedi; imbracciava il mitragliatore fumante. Stese ai suoi piedi, le altre tre guardie nere.

«Penserai che li abbiamo uccisi, figliolo» disse con calma il capitano. «Sarebbe un crimine imperdonabile uccidere il proprio comandante e dare così un grosso vantaggio al nemico».

Io non dissi nulla. Anche gli altri dietro di me rimasero in silenzio. Il capitano continuò, tranquillo.

«Quello che dobbiamo capire è chi abbiamo ucciso e poi, se questi siano mai stati vivi».

«Sembrano dei pupazzi» dissi.

«Sono dei pupazzi!» replicò. «Marionette, burattini, tutto, fuori che uomini. Noi del Pugno Nero ci siamo coordinati per un’azione che cambierà il destino dell’umanità. Oltre le linee avversarie qualcuno dei nostri, tra le file di Estralhia, ha fatto lo stesso con il loro ufficiale superiore. L’operazione è partita e si espanderà a macchia d’olio per neutralizzare tutte le marionette che ci hanno comandato finora. Queste creature comandano migliaia di uomini ignari e obbedienti per cui non sappiamo se avremo successo. Ma era importante tentare.

C’è un altro fattore importante da valutare: dietro a ogni marionetta c’è sempre un regista.

Non sappiamo chi siano in realtà gli Inaccessibili, nessuno li ha mai visti. Ma se non possono comandarci di persona e hanno bisogno di pupazzi che rispondono direttamente ai loro ordini, ciò significa che sono pochi, oppure che sono deboli. Finché non arriveremo a loro, non sarà finita. Ma giuro che ci arriveremo».

Scambiai un’occhiata con i miei compagni: la pensavamo tutti allo stesso modo.

«Capitano, noi siamo pronti!»


***


L’Inaccessibile di Norkheria guardava fisso fuori della vetrata del palazzo. Era vestito con una lunga tunica rosso scura. Bordature in oro e argento la rifinivano, Un grosso casco di piombo gli copriva completamente il capo.

Se ne stette impassibile, voltato verso la finestra, anche quando entrò nella stanza uno dei suoi generali pupazzo a riferire le ultime novità. Il pupazzo si avvicinò e si fermò sull’attenti.

«Potente Inaccessibile, abbiamo perso il controllo d’importanti parti dell’esercito, la ribellione dilaga e presto gli uomini diventeranno pericolosi».

Senza aspettarsi una risposta, poiché il suo unico compito era riferire la situazione, il generale fece dietrofront e uscì dalla stanza.

L’Inaccessibile azionò una leva e gli enormi tendaggi coprirono la finestra oscurando quasi del tutto la stanza.

Nell’oscurità, al sicuro dalle radiazioni solari, poteva togliersi il pesante casco di piombo. Nella penombra, illuminata dalla luce che riusciva a entrare attraverso uno spiraglio tra le tende accostate, fu finalmente ben visibile la sua enorme testa d’insetto, con i grandi occhi sfaccettati e le mandibole che si strofinavano nervosamente l’un l’altra.

Emise uno stridio, evidentemente preoccupato. C’erano solo altri otto suoi simili a dominare il mondo. I terrestri cominciavano ad aprire gli occhi e il gioco che lui e gli altri avevano portato avanti per duecento anni non poteva continuare.

Il loro potere era proliferato grazie all’ignoranza! Era bastato sostituirsi agli stolti governanti della Terra per ereditare una gigantesca massa umana da usare a piacimento.

Presto, però, le cose sarebbero cambiate. Lui e gli altri avevano una sola possibilità, salire sulle astronavi e fuggire. Da qualche parte nel cosmo, c’era sicuramente un altro pianeta da sottomettere, bisognava solo cercarlo.

Decise di partire, al più presto.

 

Questo e altri racconti sono inclusi nell'antologia SCHEGGE DALLO SPAZIO